Le «chartae» di Antonio Freiles

In una valutazione retrospettiva delle ricerche nel campo delle arti visuali del decennio che va a concludersi, è d’obbligo porre l’accento sul ritorno di una figuratività effusa e soggettivistica, affermatasi sotto le specie dei diversi neoespressionismi, e, all’altro polo, sulle espansioni delle sperimentazioni nell’area immateriale dei nuovi media di comunicazione, soprattutto elettronici. Queste due pulsioni sembrano dare fisionomia alla scena del decennio prolungando e intrecciando altre tensioni che sono state tipiche di quello precedente: la smaterializzazione e concettualizzazione delle pratiche visuali, il recupero di una fattualità “analitica”, primariamente consapevole e, in ogni caso, irriducibile.

Rispetto alle due linee di tendenza identificate, subito evidenti, ce ne è tuttavia una terza, meno clamorosa ma non meno indicativa degli ultimi decenni. Questa può registrare le diverse esperienze rivolte ai processi costitutivi del canone fattuale del mondo delle arti visuali: gli apporti vivacissimi dalla pittura alla scultura negli anni Ottanta vanno letti in questo senso; in tale direzione debbono essere considerate le numerose e diverse ricerche che implicano la redefinizione di un materiale tra i più antichi e versatili tra quelli adoperati nell’attività grafica, e in genere comunicativa, la carta, e che qui sarà necessario porre in osservazione, secondo una complessa e modernamente orientata prospettiva, per una migliore comprensione delle ragioni e degli esiti dell’opera più recente e significativa di Antonio Freiles.

Il procedimento di fabbricazione della carta non ha variato nei secoli le sue fasi fondamentali. Esso si vale della deposizione di un feltro di fibre di cellulosa per sospensione acquosa assai diluita su una fitta rete metallica. Le fibre di cellulosa vengono così ad unirsi in un foglio per “feltratura” per mezzo della rimozione dell’acqua e del successivo essiccamento del foglio.

L’importanza della carta nella storia della civiltà orientale e occidentale – dove le procedure di fabbricazione hanno poche varianti – è fondamentale non solo per la trasmissione della cultura legata alla scrittura, di cui resta il tramite fondamentale, ma anche per tutte quelle forme espressive del mondo visuale implicanti la configurazione del segno.

Il dato che però distingue le ricerche contemporanee da quelle tradizionali è il fatto che mentre le procedure classiche utilizzano le caratteristiche del supporto – e da qui la grande varietà di tipi dì carte diverse per granatura, grammatura, coloritura, ruvidità, spessore, trasparenza e così via – a seconda delle diverse finalità rappresentative, grafiche o pittoriche, i nuovi artisti sperimentatori intervengono sui momenti generativi del processo stesso raggiungendo la definizione di un nuovo manufatto dove singolare evidenza e particolare consistenza appaiono ogni volta inseparabili e induplicabili.

La carta conserva in questo modo, oggi, una ambiguità simbolica. Essa è per eccellenza il luogo del deposito del mondo della comunicazione e fantastico, supporto indispensabile di memorie scritte e comunque delineate, e insieme vivente figura di tenuità e di leggerezza.

Anche questo aspetto ha sollecitato molti artisti recentemente. La tensione infatti verso formulazioni primarie e nello stesso tempo stratificate della cultura fattuale, ha tentato anche di superare quei limiti di pesantezza che sono tipici della trionfante, compatta e densa, “pittura” affermatasi negli ultimi cinque secoli di arte occidentale.

Perché la fragile, luminosa e vibratile apparenza di un foglio delineato o colorato non deve poter competere con la continua e spessa superficie cromatica di una pittura che ama depositarsi come pellicola organicamente ininterrotta, definita e conclusa, su un esterno, anche se congeniale, supporto?

La predilezione di molti artisti contemporanei per la carta può essere letta nella direzione non di un tracciato riduttivo, ma come una rivoluzione costruttiva nell’universo della fattualità.

L’universo della carta è, per questo il mondo della memoria scritta, disegnata o liquidamente dipinta; il luogo simbolico dove le immagini si rivelano insieme intense e per qualche verso volatili. È anche il campo, per gli artisti più radicalmente impegnati in una processualità aperta e innovativa come Antonio Freiles, dove è possibile ricondurre ad una polarità efficacemente produttiva, la procedura tecnica fondamentale, è insieme un’invenzione, sempre rinnovata, dentro gli spostamenti e le articolazioni di un preciso canone.

La storia artistica di Antonio Freiles sembra condurre con naturalezza agli esiti e alle opzioni ultime.

Formatosi nel clima di Messina, la città siciliana più impegnata nella vita delle arti visuali in questo dopoguerra, Freiles si è giovato dell’isolata lezione di un artista attento alle diverse forme della fattualità creativa, Salvatore Castagna, attivo per decenni a Messina in un solerte e generoso magistero, e del confronto con le più avanzate ricerche espressive a livello nazionale e internazionale nel campo della produzione di grafica d’arte, che egli stesso ha stimolato.

Il clima nel quale Freiles ha maturato le prime significative esperienze alla svolta degli anni Settanta, è quello del recupero di una “pratica della pittura”, contestata negli anni Sessanta a favore di una proclamata concettualizzazione dell’immagine artistica e dell’affermazione di un metalinguaggio visuale oltre la bidimensionalità del campo pittorico convenzionale. Condizione difficile, per chi ricorda il clima di quegli anni, in cui sembrò a molti che la pittura fosse destinata a una irreversibile estinzione, ma che obbligò a una riconsiderazione fondamentale dei principi, essenziali ed eliminabili, di ogni possibile costituzione d’immagine (al di là dell’opposizione “banale” dei decenni precedenti, tra figurazione e astrazione).

In questo scenario ogni gesto, processo o intervento che implicasse l’utilizzazione del pigmento pittorico e la declinazione della luce imponeva una consapevolezza nuova senza la quale non sarebbero stati più possibili espansive progressioni di una moderna “icona” simbolicamente riconoscibile e linguisticamente efficace. E’ una condizione sicuramente non facile per un giovane artista attratto, per naturale inclinazione e formazione, oltre che per consapevolezza critica, dalla lezione dei grandi maestri dell’astrazione lirica internazionale. Guido Ballo, Enrico Crispolti e Tommaso Trini sono stati, nell’area italiana, ben attenti a cogliere questa radice effusivamente lirica e, per una connotazione topografica irrefutabile, “solare” della pittura di Freiles. Però tutti gli attenti lettori del lavoro di Freiles – anche dal versante internazionale dove interventi come quelli di Patricia Trutty Coohill meritano di essere ricordati per la pertinenza e l’ampiezza dei riferimenti – hanno tenuto sempre a sottolineare come il registro “lirico” dell’opera di Freiles non è mai stato vincolato alla continuità trattenuta e specchiante di una superficie (fenomeno che contraddistingue molta “pittura analitica” degli anni Settanta), ma piuttosto obbligata alla messa in evidenza di una propria costitutiva e magmatica materialità. In questa, le forme risultano organizzate, oltre che per una condensazione spaziale, per una temporalità, in divenire o in crescita, orientata nel senso di una progressiva apertura o, se si vuole, di una lucida “deriva”. La sollecitazione di un campo di visione indagato nei suoi momenti formativi essenziali e poi condotto a una apparenza trasmutante oltre i confini di ogni possibile “quadro”, è carattere che ben può riconoscersi come termine di riferimento formativo e poetico di tutto il percorso negli anni Settanta di Freiles pittore.

Se l’interesse verso l’universo dei segni colorati legati alla membranosa e    fragile esistenza dei fogli di carta caratterizza, in tutto il mondo, la rinnovata scena pittorica degli ultimissimi anni, bisogna dire che l’intervento di Freiles in tale area è, dal versante italiano, tra i più precoci. Le prime esperienze che egli compie in questo campo sono del 1979. Esse indicano subito che per l’artista è importante stabilire i termini di un intervento redefinitorio di una nuova formatività, comunicativa ed artistica, non sopra la superficie della carta ma nella costituzione della carta. La differenza tra le due strategie operative non è irrilevante. Intervenire sulla carta significa affidare ancora una processualità artistica alla definizione di una forma per qualche verso “esterna”. Spingersi nel contesto della materialità generante di un processo primario, intervenendo su questo fino a una totale compenetrazione tra organismo strutturale e apparenza visibile, significa sollecitare tutto l’intero processo artistico verso un unico tracciato di aggregazioni e di evidenze. Lo stesso percorso che si è cercato di delineare negli svolgimenti della pittura, si rende palese, anzi si radicalizza, nelle chartae, un arcipelago di isole “vulcaniche” continuamente in permutazione anche se sempre la configurazione di ogni foglio appare irreversibilmente sigillata.

L’avvicinamento tra un momento che recupera una remota memoria antropologica e una pratica artistica consapevolmente innovativa, non deve considerarsi, alla fine di un secolo difficile dominato dalle infinite modellazioni della tecnica, un punto di contraddizione. La forza ininterrotta della espressione dell’arte vale infatti per la contemporanea esistenza di infrenabili rotture e di circolanti prosecuzioni e perfusioni. Questo equilibrio-disequilibrio rende spesso ansiosa la pratica del mondo comunicativo dell’arte per gli artisti e, in un paradossale rovesciamento, confortante per chi sa leggerne le opere in una reale contemporaneità. Stabilire se queste chartae sono frammenti ritrovati di una cultura materiale che

nell’antichità seppe, dalle foglie dei papiri, frequenti sulle rive dei fiumi siciliani, costituire preziose e ricercate carte, o se esse oggi rappresentino una “invenzione” che ama dimostrare in tutti i punti del suo percorso la fisicità ineliminabile dei processi che la determinano, può risultare una questione non essenziale. Importante è piuttosto che le carte rivelino istantaneamente e con pienezza di espressione, il valore dell’addensarsi del colore, del correre della luce, a fronte o angolarmente, rispetto all’artefatto che indica nettamente due tempi in ogni suo dichiararsi spazio colorato, spazio di luce: un tempo interno di costituzione, di cui la memoria è con costanza dichiarata, e Un tempo di durata e di espansione, di cui, come si è già detto, non è fissato un termine, anzi esso è, con ogni forza, negato.

Chiunque pratichi l’arte italiana di questo secolo sa che la componente, la linea, “energetica” è forse la costante dominante, espressione di una condizione rivoltosa, obbligata a rifiutare il carico stratificato di una pesante memoria storica, e protesa, di conseguenza, verso le inarrestabili accensioni del nuovo. Questa linea parte dalle riflessioni acute di Umberto Boccioni connotando tutta l’esperienza futurista, e non si spegne certo dentro l’Arte Povera che sposta la Natura nel Museo tentando di non frenarne pulsioni e significati primari.

Tale “energia” non è elemento estraneo neppure alle ricerche più nuove nel campo della pittura (che sviluppano te lucide ma rigide proposizioni analitiche nella nuova pittura). L’opera di Freiles può anche essere letta in questa chiave: una somma di pulsioni materiche recuperate in un nucleo formativo primario e svelate con forza in ogni punto di una evidente dimostrazione che Enrico Crispolti ha potuto definire “epifanica”.

Le carte raccolte in questa esposizione debbono però essere lette nella loro piana evidenza. In questa prospettiva alcuni dati plastici primari vanno considerati. Il primo riguarda la conformazione interna delle campiture di colore dentro la sagomatura del foglio che ha valori costanti (un foglio quadrangolare di circa quaranta-cinquanta centimetri per lato). Con una approssimazione che si può considerare, penso, accettabile, si possono indicare tre configurazioni spaziali fondamentali. La prima è quella cupoliforme, così frequente, nella grande e nella piccola scala, in tanta pittura occidentale: il campo pittorico quadrangolare, prolungato in alto, si solleva verso un confine velocemente curvilineo, obbligando l’occhio di chi guarda a muovere una percezione veloce e continua. La seconda configurazione contrappone nella stessa icona, due “figure” bilanciate su due lati del campo visuale che a loro volta subiscono un’inversione formativa e cromatica nel senso di un rovesciamento di positivo-negativo. La terza configurazione, che è possibile isolare come elemento dì riferimento per molte chartae, è costituita da una contrapposizione tra una “gabbia” relativamente compatta, ma non omogenea, cromatica, e una improvvisa rottura-freccia che interviene a spaccare il campo visuale o a centrarlo secondo una libera geometria di accostamento, come verso un mobile bersaglio.

Tali configurazioni non risultano iterazioni stereotipe, ma variazioni in espansione di un assetto topologicamente vivo al quale l’artista ama ricondurre processualità e invenzione di ogni suo intervento.

Un’analisi dell’opera più recente di Freiles non può tralasciare di mettere in enfasi le sorgenti luminose e cromatiche di un’opera totalmente data e radicata nell’universo, antico e sempre nuovo, della pittura.

Freiles è pittore di luce mediterranea. Non teme il clamoroso splendore dei gialli che a Goethe apparvero, giustamente, i colori più difficili nelle mani di qualsiasi pittore. Freiles ama i toni ranciati, i rossi aspri e sanguigni delle terre fertili. Ama i viola degli orizzonti “orientali” della città di mare dove vive. Ama i verdi intensi e ombrosi. La sua pittura però rifiuta modi squillanti e cantati, compenetrata nello spessore aspro e tattile delle carte, preferisce tenersi a una corposa pienezza, ama rilevare il confine tra un pigmento e l’altro, come stabilendo una continuità organica e permutante. Il colore di queste carte, in queste carte, è un fluido pulsante che attiva ogni foglio come un manufatto singolare chiamando con insistenza la nostra vigilante percezione e intelligenza (delle cose del mondo e delle sue infrenabili immagini).

Vittorio Fagone

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